Amanti perduti

Creato: Giovedì, 10 Marzo 2016 11:38

Titolo originale: Les Enfants du paradis
Regia: Marcel Carné
Sceneggiatura: Jacques Prévert
Montaggio: Henri Rust, Madeleine Bonin
Fotografia: Roger Hubert (assistente Marc Fossard)
Musica: Maurice Thiriet e Joseph Kosma (Georges Mousqué per le pantomime)
Scenografia: Léon Barsacq e Raymond Gabutti (su bozzetti di Alexandre Trauner)
Costumi: Antoine Mayo
Interpreti e personaggi: Arletty (Garance), Jean-Louis Barrault (Baptiste Debureau), Pierre Brasseur (Frédérick Lemaître), Marcel Herrand (Pierre-François Lacenaire), Louis Salou (conte Edouard de Montray), Pierre Renoir (Jéricho), María Casarès (Nathalie), Fabien Loris (Avril), Étienne Decroux (Anselme Debureau), Gaston Modot (Fil de Soie), Jane Marken (Mme Hermine), Marcel Pérès (direttore dei Funambules), Paul Frankeur (commissario), Pierre Palau (direttore di scena dei Funambules), Jacques Castelot (Georges), Léon Larive (portiere dei Funambules), Albert Rémy (Scarpia Barrigni), Robert Dhéry (Célestin), Rognoni (direttore del Grand Théâtre)
Produzione: Francia 1945
Durata: 195 min

"Mi chiamo Garance. Il nome di un fiore", dice Arletty con il suo sorriso infinito e il suo sguardo vago all'impetuoso corteggiatore che l'ha bloccata in mezzo all'affollatissimo Boulevard du Temple dichiarandole il suo amore e tentando di trascinarla con sé. Lui (un grandissimo Pierre Brasseur) è Frédérick Lemaître, giovane attore allora sconosciuto (siamo intorno al 1840), che diventò poi una celebrità, mentre lei, Garance, senza fissa dimora, fa la figurante immota in uno dei tanti baracconi che pullulano in quello che era il quartiere parigino dei teatri (ma anche di ladri, truffatori, assassini, tanto da essere soprannominato "Boulevard du crime"): imperscrutabile sirena immersa in una botte rotante piena d'acqua, spalle nude e uno specchio in mano, e poco dopo status di Diana cacciatrice che, sul palcoscenico del teatro dei Funambules, assiste impenetrabile alle disgrazie e ai sogni del Pierrot triste e talvolta cattivo impersonato da Baptiste Debureau, destinato a diventare, di lì a qualche anno, il mimo più famoso di Francia (l'inarrivabile Jean-Louis Barrault).
Pare sia stato proprio Barrault a raccontare, a Nizza nel 1943, la storia di Debureau e di altri protagonisti del teatro ottocentesco al regista Marcel Carné e al poeta-sceneggiatore Jacques Prévert, che avevano già realizzato insieme cinque film, dominati dal fatalismo romantico e dal tema del Destino, e improntati a quel "realismo poetico" che fu la cifra del cinema francese degli anni della guerra. Nacque così il capolavoro della coppia Carné-Prévert. Amanti perduti è il ritratto torrenziale e malinconico della Parigi dei teatri, dei bassifondi e dei banditi che piaceva a Victor Hugo, con al centro il quadrilatero amoroso che gira intorno alla sfuggente Garance. Desiderata da Baptiste (per la sua anima) e da Frédérick (per il suo corpo), ma anche dal poeta-assassino Pierre François Lacenaire (anche lui esistito veramente) e dal ricco conte di Montray, Garance ama ridere, vivere e afferrare l'amore. Ama anche Baptiste, dal primo momento in cui i loro occhi e i loro spiriti, così diversi, si sono incontrati. Ma quella notte Baptiste ha esitato, rapito dallo spirito, e Garance è andata per la sua strada. Intorno a loro e alla giovane attrice innamorata di Baptiste, intorno all'inquietante straccivendolo-ricettatore Jéricho e ai teatranti, alle affittacamere, agli osti, ai malfattori, palpita, vive, ride, grida tutta la folla del Boulevard du crime, a partire da Les Enfants du Paradis del magnifico titolo originale (i loggionisti, squattrinati, per lo più giovani, entusiasti, quelli che decretavano il successo o il fallimento teatrale) fino alle maschere, alle centinaia di Pierrot che nell'ultima sequenza del carnevale invadono la strada e lo schermo, tanto festosi quanto minacciosi, in un delirio fatale e romantico raramente replicato dal cinema con tanta efficacia.

Les Enfants du Paradis costò un sacco di soldi, ebbe una lavorazione travagliatissima, in piena occupazione tedesca, fu diviso in spezzoni e nascosto in diversi luoghi segreti, uscì a Parigi nel 1945 subito dopo la liberazione, con grande successo. La Gaumont sollevò obiezioni per la durata anomala ma Carné, sfruttando ancora il credito ottenuto con il grande successo dei suoi film precedenti, riuscì a persuaderli a proiettare le due parti del film una di seguito all'altra, con i titoli Le Boulevard du Crime e L'Homme Blanc. "Fu persino accettata la prenotazione del posto. Il prezzo dei biglietti venne raddoppiato, passando dai quaranta agli ottanta franchi".

Se in Francia l'anomala lunghezza del film aveva forse contribuito a renderlo un evento culturale che celebrava la liberazione del paese, in alcuni paesi esteri, come Italia e Stati Uniti, invece, Les Enfants du Paradis subì la censura dei distributori. La società italiana che deteneva i diritti del film per l'Italia, la Scalera Film dei fratelli Michele e Salvatore Scalera aveva siglato un accordo già dal 1943 con Paulvé, preacquistando per la distribuzione italiana L'amore e il diavolo (che sarà distribuito solo nel 1949) e, appunto, Les Enfants du Paradis. Ma la Scalera conobbe varie traversie dopo la fine della guerra: i produttori si erano compromessi con il regime fascista e nel 1945 Michele Scalera finì sotto processo. Fu assolto ma nel 1950 il passivo della Scalera raggiunse la cifra di un miliardo e mezzo di lire e nel 1952 la società dovette essere messa in liquidazione.
Appena un anno prima del fallimento, agli inizi del 1951, la società distribuì nelle sale italiane Les Enfants du Paradis, infliggendo al film una serie di modifiche arbitrarie che lo snaturarono completamente: impose un titolo banale come Amanti perduti e soprattutto massacrò il capolavoro di Carné-Prévert tagliando circa 84' dei 190' della durata originale, riducendo così le due parti ad un unico lungometraggio di 106' (la lunghezza originaria di 5593 metri fu ridotta a 3075).
Il cinema di Carné-Prévert era sempre stato la 'bestia nera' della censura del regime fascista che aveva ostracizzato i film del "realismo poetico" ritenendoli "disfattisti" e "sovversivi". La censura ministeriale dell'Italia repubblicana si limitò ad infliggere al film un divieto ai minori di 16 anni.
Emanuela Martini, Film TV

Un film che rimane uno dei più belli di tutto il cinema francese: Les Enfants du paradis. Film di alta classe nel quale la novità d'impostazione si sposava con una rara bellezza figurativa. Era una brillante lezione di stile, con la quale Carné sembrava confermare le intenzioni del suo precedente lavoro rivedendo da cima a fondo i canoni della produzione francese d'anteguerra, ripulendo le proprie ispirazioni da tutto ciò che sapeva di bassofondo convenzionale, persino rinnovando il suo pessimismo che qui appare in un certo senso rasserenato, o solamente rassegnato, comunque ingentilito da una cert'aria quasi "shakespeariana". È a Shakespeare difatti che il film ruba la sua morale. "Il mondo è un palcoscenico in cui uomini e donne sono gli attori. Essi vi fanno i loro ingressi e le loro uscite", dice una didascalia iniziale (da As You Like It).

In Les Enfants du Paradis Carné ci porta in una Parigi 1840 magistralmente autentica. Il Boulevard du Crime, che è il centro dell'azione, è bellissimo nella sua chiara e delittuosa allegria, come sono genuini gli interni nei quali la vicenda si ambienta fantasiosamente (si rammenti il bagno dove avviene il delitto) e che stanno agli esterni in un preciso, intimo rapporto.

La vicenda ha per protagonisti personaggi storici: il mimo Baptiste Deburau, l'attore Frédéric Lemaître, e luoghi storici, il Boulevard citato e il teatro dei Funambules: tutta un'epoca gloriosa che Parigi non ha dimenticata. Veramente il film si divide in due epoche aventi rispettivamente per titolo: Le Boulevard du Crime e L'Homme blanc, ma la storia rimane la stessa, imperniata appunto sul teatrino dei Funambules dove ogni sera "i ragazzi del paradiso", ossia i frequentatori del loggione, tumultuano riversando il loro plauso e i loro improperi sugli attori. Talvolta l'azione si allontana dal teatro ed è per entrare in un mondo curioso di "apaches" e di milionari, ma al teatro sempre ritorna. Il personaggio centrale è tuttavia una donna, Garance, che attira intorno a sé scribacchini, ladri, titolati, oltre al povero meraviglioso mimo e all'attore. Tutti sono invaghiti di lei alla pazzia, ciascuno a modo suo, ma è il mimo casto e impetuoso che Garance si accorge di amare. Sennonché il loro amore è impedito da un banale equivoco. La donna fugge e il mimo la insegue disperato per le vie di Parigi dove letteralmente impazza il Carnevale, e questa corsa inutile e burlesca quanto angosciosa è uno dei pezzi più sorprendenti che il cinema ci abbia dato. Soprattutto qui, ma anche nel resto del film, le immagini sono di un'eleganza plastica che risulta dai valori chiaroscurali, da una fotografia quasi a chiazze eppure pastosa, morbida: il "bianco e nero" del cinema ha qui il suo probabile canto del cigno.

La trama è esilissima, ed ha soltanto un guizzo finale: un delitto. Il resto è dietro le quinte, non detto, ma non per questo assente. I pochi fatti che vediamo han quasi l'aria di essere secondari rispetto ai tanti altri che non vediamo ma certamente avvengono nel mondo. Il film ha, difatti, una dimensione inconsueta: è come guardare un panorama molto vasto, che è spazio ed è tempo insieme. Cioè esistenza. Dal Boulevard du Crime a L'Homme blanc i personaggi non fanno alcun progresso, sono là, sempre uguali, coi loro sentimenti di prima. C'è soltanto, dietro ad essi, una maggiore profondità che li innalza poeticamente, umanamente. Non sono più Lemaître, Deburau o Garance, sono Arlecchino, Pierrot, Colombina, che rappresentano l'eterna commedia umana. Ed ecco un risultato di quella tecnica nuova, di sceneggiatura e di regia, che a tutta prima dà l'idea di squilibri, di fratture nel racconto. Le lunghe pantomime di Barrault riprese con la macchina immobile, quel correre dietro a tanti particolari, personaggi, situazioni che poco hanno da spartire con la vicenda, quell'abbandonarsi a capricci formalistici e a raffinatezze compositive tra cui sembra smarrirsi il tema originario: tutto rientra invece in un ordine prestabilito, un ordine che opponendosi alle normali regole teatrali e cinematografiche in uso tenta di riassumere sullo schermo le esperienze delle altre arti e della cultura in genere.

Michelangelo Antonioni, Marcel Carné, parigino, "Bianco & Nero", n. 10, dicembre 1948.