Un'altra donna

Titolo originale: Another Woman
Regia: Woody Allen
Soggetto e Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Sven Nykvist
Montaggio: Susan E. Morse
Scenografia: Santo Loquasto
Interpreti e personaggi: Gena Rowlands (Marion Post), Mia Farrow (Hope),  Ian Holm (Ken), Gene Hackman (Larry Lewis), Blythe Danner (Lydia), Martha Plimpton (Laura), Sandy Dennis (Claire), John Houseman (padre di Marion), Harris Yulin (Paul), Kenneth Welsh (Donald), Frances Conroy (Lynn), Josh Hamilton (fidanzato di Laura), Philip Bosco (Sam)
Produzione: USA 1988
Durata: 84 min

 

Marion è una cinquantenne realizzata sia sul piano professionale che su quello personale. Almeno è quanto dichiara lei stessa con la sua voce narrante. E'sposata con un celebre medico, Ken (che ha una figlia sedicenne avuta da un precedente matrimonio), un fratello sposato e il padre ottantenne. E' preside della facoltà di filosofia, ma ora è tutta presa dalla scrittura di un libro. Un giorno, nel suo appartamento rifugio, a Manhattan, si accorge che attraverso una parete può seguire i colloqui in corso nell'attiguo studio di uno psicanalista. Finisce per identificarsi con una delle pazienti, Hope, e attraverso di lei si ritrova a fare i conti con se stessa.

L'uscita americana del film delude la critica: “ennesima imitazione bergmaniana”, “l’ultimo capitolo della trilogia del terrore dopo Interiors e Settembre”. Il critico televisivo dell'ABC, Gary Franklyn, lo commenta in studio mettendosi addirittura a russare sonoramente. Non c’è da stupirsi e lo stesso Woody probabilmente non si aspetta un trattamento diverso da chi non sa andare oltre le apparenze. È vero, c’è molto Bergman: dalla presenza di Sven Nykvist, ai chiari riferimenti a Persona già facilmente intuibili nel poster locandina, alla maschera sul volto indossata per gioco da una giovane Marion e rimasta indelebile per anni, fino a quel lunghissimo sogno (ben 9 minuti) in cui si cerca disperatamente un rassicurante e materno posto delle fragole.

La psicoanalisi entra a più livelli nel film. Almeno tre sono gli analisti: lo psichiatra, figura marginale; Hope (speranza), l'analista indiretta e simbolica di Marion, e la protagonista, terapeuta di se stessa. Il suo è un autoprocesso vissuto seguendo rigorosamente il codice psicoanalitico. La sua crescita luttuosa, attraverso l'aprirsi di porte interiori, fa emergere le falsificazioni della vita. Il risultato doloroso che ne consegue sta in un rapporto più consapevole con la realtà, quindi più vero. La donna, il cui cognome Post, per ironia dell'autore, significa "palo o pilastro di sostegno", ci guida con la sua voce lungo i corridoi della psiche, sovrapponendosi a quella di Hope, sussurrata e materna come nella fase dell'imprinting per il bambino. La stesura del libro, sua ricercata occasione di rifugio solipsistico, si trasforma allora in un "duplice" lavoro di introspezione e di rinascita. E se la voce-fantasma le è dapprima dannosa (come i colloqui "sterili" con i parenti), poi diventa insostituibile per la lucidità che emana. Un persorso analogo si svolge in Persona di Bergman, nel confronto progressivo tra un'attrice - ovvero una donna abile nel mentire - e un'infermiera, Alma, specialista nel curare. Ma è lei la, la professionista della psiche, a scivolare piano piano nell'identità dell'altra. C'è chi nota un "falso remake" di Bergman, oltre a echi del suo Immagine allo specchio o di Gertrud di Dreyer (1964), che mettono al cento la dolorosa ricerca interiore di una donna. In realtà, se Marion riassume il pubblico tutto, Hope simboleggia la missione di Woody e della sua arte.

[Woody Allen - Il Castoro cinema]