Ciclo in Corso

Cléo dalle 5 alle 7

Titolo originale: Cléo de 5 à 7
Regia: Agnès Varda
Soggetto e sceneggiatura: Agnès Varda
Fotografia: Alain Levent, Jean Rabier
Montaggio: Pascale Laverrière, Janine Verneau
Musiche: Michel Legrand
Scenografia: Jean-François Adam, Bernard Evein
Costumi: Alyette Samazeuilh
Interpreti e personaggi: Corinne Marchand (Cléo), Loye Payen (Irma la cartomante), Dominique Davray (Angela), Jean Champion (padrone del bar), Jean-Pierre Taste (ragazzo del bar), Renée Duchateau (venditrice di cappelli), Lucienne Marchand (tassista), José Luis de Vilallonga (amante di Cléo), Michel Legrand (Bob), Serge Korber (Maurice), Dorothée Blanck (Dorothée), Raymond Cauchetier (Raoul il proiezionista), Antoine Bourseiller (Antoine), Robert Postec (dottor Valineau)
Produzione: Francia, Italia 1962
Durata: 90 min

 

 

Alle 5 del pomeriggio, il 21 giugno 1961, Cléo scoppia a piangere da una cartomante. Attende il risultato di un esame medico. Ha paura di avere un cancro. Cléo esce. Tutti la guardano. E' una donna splendida, civettuola e capricciosa. Per novanta minuti, in mezzo a orologi a pendolo che segnano il trascorrere del tempo, non la abbandoniamo per un istante. La sua governante, il suo amante e i suoi musicisti non capiscono la sua ansia. Ripete una canzone, il cui testo la turba. Esce nuovamente, sola. La paura l'ha svegliata. Inizia a osservare gli altri, i passanti, gli avventori dei caffè e un'amica premurosa. Va in un parco a guardare gli alberi e incontra un soldato a fine licenza. La complicità che nasce tra i due, in questo momento pericoloso delle loro vite, placa Cléo. Lui l'accompagna all'ospedale prima di ripartire per la guerra d'Algeria. Vivono un momento di grazia nel giorno più lungo dell'anno.

Il film si snoda al presente. La macchina da presa non abbandona mai Cléo dalle cinque alle sei e mezzo. Se il tempo e la durata sono reali, lo sono anche i tragitti e le distanze. All'interno di questo tempo meccanico, Cléo sperimenta la durata soggettiva: "il tempo non passa mai" o "il tempo si è fermato". Lei stessa dice: "Ci resta così poco tempo" e, un minuto dopo: "Abbiamo tutto il tempo". Mi è sembrato interessante far sentire questi movimenti vivi e diseguali, come una respirazione alterata, all'interno di un tempo reale in cui i secondi si misurano con la fantasia.
(1962) Agnès Varda

Solo Sunny

Titolo originale: Solo Sunny
Regia: Wolfgang Kohlhaase e Konrad Wolf
Sceneggiatura: Wolfgang Kohlhaase e Dieter Wolf
Fotografia: Eberhard Geick
Montaggio: Evelyn Carow
Musiche: Günther Fischer
Scenografia: Alfred Hirschmeier
Interpreti e personaggi: Renate Krößner (Sunny), Alexander Lang (Ralph), Dieter Montag (Harry), Heide Kipp (Christine), Klaus Brasch (Norbert), Hansjürgen Hürrig (Hubert), Harald Warmbrunn (Benno), Olaf Mierau (Udo), Ursula Braun (Frau Pfeiffer), Regine Doreen (Monika), Klaus Händel (Bernd), Rolf Pfannenstein (Ernesto), Bernd Stegemann (Detlev), Fred Düren (Dottore)
Produzione: Germania Est 1980
Durata: 112 min

 

La mattina dopo. “Niente colazione” dice la giovane berlinese Ingrid Sommer (interpretata da Renate Krößner) al suo ospite di una notte mentre apre la finestra del proprio appartamento in Prenzlauer Berg. Quando l’uomo inizia a ribattere, aggiunge: “E niente discussioni”. Ingrid Sommer, nome d’arte Sunny, fa la cantante. Ha molti ammiratori, ma ama essere indipendente. Sunny è l’incarnazione dell’outsider autonoma e sicura di sé. Non permette che siano gli uomini a dirle ciò che vuole. Gira il paese con il suo gruppo, esibendosi nei locali notturni e nei bar. Ha solo un moderato successo, ma aspira alla felicità e alla fama. Solo Sunny è uno dei film di tematica contemporanea più popolari della DEFA ed è presto diventato un film di culto, a Est come a Ovest. Con la sua onestà, il suo realismo documentario e i suoi dialoghi mordaci il film tasta il polso dell’epoca cui appartiene. Colpisce quanto Wolf sia vicino al destino di Sunny, malgrado la differenza d’età che lo separa dagli slanci giovanili della ragazza. Nella sua semplicità e nella comprensione dei pensieri e degli stati d’animo della protagonista, il film offre un ritratto autentico della vita della generazione di mezzo della DDR nei primi anni Ottanta. La straordinaria interpretazione di Krößner diede un volto a una generazione. “Alla naturalezza della rivendicazione morale aggiunge il fascino dell’insolenza” scrisse la stampa. Alla prima del film Wolf disse che il socialismo dipendeva da personaggi come Sunny. Ancora una volta Wolf collaborò con lo sceneggiatore Wolfgang Kohlhaase, che inoltre lo affiancò alla regia. La trama si ispira alla biografia della cantante Sanije Torka. Il compositore Günther Fischer creò una suggestiva e memorabile colonna sonora insieme alla cantante jazz Regine Dobberschütz. Il film ricevette molti premi ai festival nazionali e internazionali, compreso l’Orso d’Argento alla Berlinale per Krößner, recentemente scomparsa. Per Wolf Solo Sunny fu l’ultimo progetto cinematografico compiuto, prima della morte nel 1982.

Outside Noise

Titolo originale: Outside Noise
Regia: Ted Fendt
Sceneggiatura: Ted Fendt, Mia Sellmann, Daniela Zahlner
Fotografia: Sage Einarsen, Britni West, Jenny Lou Ziegel
Montaggio: Ted Fendt
Suono: Johannes Schmelzer-Ziringer, Melissa Dullius, Sean Dunn, Daniel D’Errico
Interpreti e personaggi: Daniela Zahlner (Daniela), Mia Sellmann (Mia), Natascha Manthe (Natascha), Genevieve Havemeyer-King, Hani Alaraj, Manu Bäuerle, Katharina Maria Grabner, Ted Fendt, Stefanie Zingl
Produzione: Germania/Austria/Corea del Sud, 2021
Durata: 61 min

 

 

Tre ragazze, tra Berlino e Vienna. L'incertezza del futuro. L'insonnia (Daniela è rientrata da New York, ma dubita che l'insonnia dipenda dal jet lag). Chi cerca un lavoro, chi è di passaggio. Incontrano delle persone, gradevoli o meno, mentre si capisce che vengono da esperienze non chiare per andare non si sa bene dove.

 

Outside Noise è un film che sembra girare a vuoto, perché tratta proprio di questo: è una specie di vagabondaggio tra capitali, in attesa di affrontare una sorta di rito di passaggio. E' la tesi di una delle ragazze, dedicata all'antropologo Arnold van Gennep, che aveva lavorato su una brillante teoria dedicata ai riti, suddivisi in triade. Il secondo è quello della soglia, o trasformazione, e pare che sia proprio lì che si trovino le tre amiche. Ma a ciò si allude solamente per un attimo. Tutto il film sembra muoversi in maniera impalpabile ...
Ho visto cose simili solo nei film della nouvelle vague. E con buona pace di venerati maestri come Carax, Assayas, Desplechin, Ted Fendt è l'unico filmaker contemporaneo che ne è il degno continuatore.

Rinaldo Censi

 

Un'altra donna

Titolo originale: Another Woman
Regia: Woody Allen
Soggetto e Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Sven Nykvist
Montaggio: Susan E. Morse
Scenografia: Santo Loquasto
Interpreti e personaggi: Gena Rowlands (Marion Post), Mia Farrow (Hope),  Ian Holm (Ken), Gene Hackman (Larry Lewis), Blythe Danner (Lydia), Martha Plimpton (Laura), Sandy Dennis (Claire), John Houseman (padre di Marion), Harris Yulin (Paul), Kenneth Welsh (Donald), Frances Conroy (Lynn), Josh Hamilton (fidanzato di Laura), Philip Bosco (Sam)
Produzione: USA 1988
Durata: 84 min

 

Marion è una cinquantenne realizzata sia sul piano professionale che su quello personale. Almeno è quanto dichiara lei stessa con la sua voce narrante. E'sposata con un celebre medico, Ken (che ha una figlia sedicenne avuta da un precedente matrimonio), un fratello sposato e il padre ottantenne. E' preside della facoltà di filosofia, ma ora è tutta presa dalla scrittura di un libro. Un giorno, nel suo appartamento rifugio, a Manhattan, si accorge che attraverso una parete può seguire i colloqui in corso nell'attiguo studio di uno psicanalista. Finisce per identificarsi con una delle pazienti, Hope, e attraverso di lei si ritrova a fare i conti con se stessa.

L'uscita americana del film delude la critica: “ennesima imitazione bergmaniana”, “l’ultimo capitolo della trilogia del terrore dopo Interiors e Settembre”. Il critico televisivo dell'ABC, Gary Franklyn, lo commenta in studio mettendosi addirittura a russare sonoramente. Non c’è da stupirsi e lo stesso Woody probabilmente non si aspetta un trattamento diverso da chi non sa andare oltre le apparenze. È vero, c’è molto Bergman: dalla presenza di Sven Nykvist, ai chiari riferimenti a Persona già facilmente intuibili nel poster locandina, alla maschera sul volto indossata per gioco da una giovane Marion e rimasta indelebile per anni, fino a quel lunghissimo sogno (ben 9 minuti) in cui si cerca disperatamente un rassicurante e materno posto delle fragole.

La psicoanalisi entra a più livelli nel film. Almeno tre sono gli analisti: lo psichiatra, figura marginale; Hope (speranza), l'analista indiretta e simbolica di Marion, e la protagonista, terapeuta di se stessa. Il suo è un autoprocesso vissuto seguendo rigorosamente il codice psicoanalitico. La sua crescita luttuosa, attraverso l'aprirsi di porte interiori, fa emergere le falsificazioni della vita. Il risultato doloroso che ne consegue sta in un rapporto più consapevole con la realtà, quindi più vero. La donna, il cui cognome Post, per ironia dell'autore, significa "palo o pilastro di sostegno", ci guida con la sua voce lungo i corridoi della psiche, sovrapponendosi a quella di Hope, sussurrata e materna come nella fase dell'imprinting per il bambino. La stesura del libro, sua ricercata occasione di rifugio solipsistico, si trasforma allora in un "duplice" lavoro di introspezione e di rinascita. E se la voce-fantasma le è dapprima dannosa (come i colloqui "sterili" con i parenti), poi diventa insostituibile per la lucidità che emana. Un persorso analogo si svolge in Persona di Bergman, nel confronto progressivo tra un'attrice - ovvero una donna abile nel mentire - e un'infermiera, Alma, specialista nel curare. Ma è lei la, la professionista della psiche, a scivolare piano piano nell'identità dell'altra. C'è chi nota un "falso remake" di Bergman, oltre a echi del suo Immagine allo specchio o di Gertrud di Dreyer (1964), che mettono al cento la dolorosa ricerca interiore di una donna. In realtà, se Marion riassume il pubblico tutto, Hope simboleggia la missione di Woody e della sua arte.

[Woody Allen - Il Castoro cinema]

La traversée

Titolo originale: La traversée
Regia: Florence Miailhe
Sceneggiatura: Florence Miailhe, Marie Desplechin
Fotografia: Cyril Maddalena, Guillaume Hoenig
Montaggio: Julie Dupré e Nassim Gordji Tehrani
Musica: Philipp Kümpel e Andreas Moisa
Interpreti e personaggi: Film di animazione
Produzione: Francia, Repubblica ceca, Germania 2021
Durata: 84 min

 

 

 

Un piccolo villaggio saccheggiato nella notte, una famiglia costretta a fuggire. I due figli più grandi, Kyona e Adriel, vengono separati dai propri genitori e affrontano soli la strada dell’esilio. Iniziano quindi un viaggio eroico che segna per loro il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, alla ricerca di ospitalità e tranquillità, nella speranza di trovare un rifugio e la loro famiglia ...
 
«Il titolo può essere chiaramente inteso in due modi. Da una parte, si riferisce all’attraversamento di un continente, con tutte le avventure e i pericoli che il viaggio comporta. Dall’altra, parla del passaggio dall’infanzia all’età adulta, dell’affrontare le scoperte e i dolori che la vita ci pone dinanzi: la distanza dalla famiglia, la perdita degli amici, la scoperta dell’amore, la creazione di legami fraterni, anche la capacità di rendersi autonomi. In questo senso, La traversée è un classico film di formazione».
Florence Miailhe 
 
Dietro gli 84 minuti di La traversée, c'è un decennio di lavoro. Tre anni negli studi d'animazione di Francia, Germania e Repubblica Ceca durante i quali Florence Miailhe - premiata autrice del cinema pittorico d'Oltralpe, e dunque maestra del cinema animato tout court - ha dipinto a olio più di 500 sfondi su altrettante lastre di vetro, lavorandoli successivamente per aggiunta o sottrazione fino a metterli in movimento con una tecnica (nel senso etimologico di "perizia", "saper fare") che ha dovuto insegnare ex novo ai suoi collaboratori, al ritmo di tre secondi al giorno d'animazione. Non sono numeri fini a se stessi, quelli sciorinati sin qui: servono ad attribuire il giusto tempo e il giusto peso alle immagini del film.
...
Quelle che vediamo all'inizio di La traversée, esordio nel lungometraggio di Miailhe (a 65 anni d'età), giungono da lontano: appartengono alla famiglia della regista, e in particolare alla madre Mireille, scampata insieme ai genitori ai pogrom di Odessa a inizio Novecento e poi di nuovo in fuga, dalla Francia occupata alla Repubblica di Vichy, con la sola compagnia del fratello minore e di un blocco da disegno. L'ombra degli avi attraversa il film soltanto in filigrana, perché anziché rielaborare puntualmente il dato biografico la regista preferisce sottrarlo alla contingenza della Storia, slabbrarlo in uno spaziotempo dai confini indefiniti, sublimarlo nella dimensione universale della fiaba, afferibile a ogni epoca e a ogni luogo.
Caterina Bogno - FilmTV