Porte aperte

Regia: Gianni Amelio
Soggetto: Leonardo Sciascia
Sceneggiatura: Gianni Amelio, Vincenzo Cerami, Alessandro Sermoneta
Fotografia: Tonino Nardi
Musiche: Franco Piersanti
Montaggio: Simona Paggi
Scenografia: Franco Velchi
Interpreti e personaggi: Gian Maria Volonté (giudice Vito Di Francesco), Ennio Fantastichini (Tommaso Scalia), Renzo Giovampietro (presidente Sanna), Renato Carpentieri (Consolo), Tuccio Musumeci (avv. Spatafora), Silverio Blasi (procuratore)
Origine: Italia, 1990
Durata: 108'

 

Siamo a Palermo nel 1936, in pieno regime fascista. Il giudice Vito Di Francesco tenta a suo modo di opporsi, con l'aiuto della legge, ad una condanna alla pena capitale di Tommaso Scalìa reo dell'omicidio della moglie, di un collega e del suo ex superiore, l'avvocato Spatafora. Un Volontè magistrale nel calarsi nel personaggio e renderne palpabile la tensione civile e la stanchezza esistenziale, dà l’unica risposta possibile al collega che sollecita il suo parere “ La pena di morte non è affare della giustizia ma della politica”.

Il titolo del film riprende quello del libro, e in una scena del film si comprende chiaramente il significato dell'espressione quando si fa riferimento alla propaganda fascista. Secondo quest'ultima, la pena di morte sarebbe stata un deterrente sufficiente a garantire agli italiani di poter vivere con le "porte aperte" anche di notte.

Ho la presunzione di credere che Sciascia avrebbe molto amato "Porte Aperte" e penso che l'avrebbe amato proprio perchè, insieme a "Cadaveri Eccellenti "di Rosi, è il film che più non si accontenta di Sciascia; è il film che, più degli altri, mette in discussione quello che Sciascia ha scritto.
Qui io credo di aver riportato il discorso di Sciascia alle sue radici più lontane, nel senso che credo -nonostante lavorassi con il mezzo del cinema, che viene considerato da tutti un mezzo più popolare, in senso anche riduttivo rispetto alla letteratura- di aver fatto nel film ancora meno concessioni di Sciascia. Penso che sia un film più duro e più concentrato sul temo di quanto non sia invece la cronaca di Sciascia, che qualche concessione al colore letterario spesso la fa. Io ho poi reso il protagonista giudice molto più ambiguo e meno limpido, meno portatore di verità.
Per esempio, mi sono chiesto che cosa facesse il padre del giudice, che io ho battezzato Di Francesco. Ho cercato dei chiarimenti nel libro, e poi ho capito che doveca trattarsi di un borghese, di una famiglia borghese; sarà stato avvocato pure lui, oppure giudice o comunque impiegato di concetto, quello che vuoi tu. Io, invece, ne ho fatto un panettiere. Questa è stata la prima cosa che ho detto a Cerami, e Cerami era d'accordissimo con me: deve essere qualcuno che per tutta la vita ha lottato per vedere suo figlio diverso da sé, in modo che quando questo figlio mette in discussione non solo il proprio lavoro, ma anche il lavoro di suo padre e di suo nonno e tutta quanta la loro esistenza, la storia assume forza, concretezza.
Nello stesso modo, del cosiddetto contadino Sciascia da un proprietario terriero, un contadino-filosofo, sposato con una francese, avvezzo alle lingue, ai viaggi, agli scambi ecc., mentre io ne ho fatto il figlio di un bracciante che, per ragioni se si vuole romanzesche, avendo il marchese di Salemi, perso al gioco certe proprietà, ha acquistato dal marchese, di cui era mezzadro, il suo palazzo. Il figlio del mezzadro è entrato in una biblioteca, ha visto dei libri, e ha deciso di leggerli.

(Gianni Amelio)